Sartù di Carlo Capuano è la seconda tappa del nostro viaggio nell’Alleanza dei Cuochi Slow Food.
Si capisce subito che Sartù non può essere considerato un semplice ristorante, dal primo momento in cui Carlo Capuano apre la porta per accoglierci in un mondo a parte. Dove ogni angolo, ogni parete, ogni dettaglio, parla di una scelta ben precisa.
Sartù è un avamposto culturale nel cuore del Vomero. Un luogo dove la vera cucina napoletana non è dimenticata, ma può, anzi deve, essere vissuta a tutto tondo. A partire dalla conoscenza delle origini della nostra cucina partenopea, fino a riflettere, nel momento stesso in cui si legge il menù, su una proposta gastronomica che fa della difesa della stagionalità e della biodiversità un imperativo, che non si tradisce in nessuna portata.
“Sartù per i tanti che lo frequentano non è più solo un ristorante – ci racconta Carlo mentre osserviamo insieme la grande e fornita libreria all’entrata – si viene qui per godere del buon cibo, delle ricette storiche napoletane, andando anche molto indietro nel tempo. Si viene ad ascoltare buona musica, in un ristorante dove il tempo e la tranquillità hanno un valore prezioso.”
Alle pareti quadri con le locandine del Teatro San Carlo, opere storiche e uniche, come quella firmata da Manilo Manara. Oltre alla libreria, a disposizione degli ospiti e degli amici, una grande cantina selezionata e raccontata nel nome della biodiversità e delle tutela dei piccoli vitigni. Sartù colpisce immediatamente, già nell’atmosfera, ma non si ferma qui. Perché dietro ogni scelta, ogni proposta, c’è di più, molto di più.
Un uomo della Terra in difesa della stagionalità.
Carlo Capuano è architetto di formazione, Uomo della Terra da sempre. Con il suo orto a Roccamonfina vive e conosce perfettamente cosa vuol dire essere agricoltore. E il patto che stringe con il territorio, come vuole l’alleanza dei Cuochi Slow Food, è un patto “di sangue”.
“Slow food è nelle mie vene – dice con passione e convinzione Carlo – la tutela della stagionalità, la difesa della biodiversità e le scelte precise che devono essere fatte per salvaguardare il territorio e l’agricoltura, sono imperativi per me.
È arrivato il momento di fare una scelta di campo. Noi ristoratori ne abbiamo la responsabilità, non solo per noi stessi o per i nostri clienti ma per il nostro futuro. Potrà sembrare una goccia nell’oceano, ma ogni scelta giusta è un piccolo passo che può contribuire a contrastare i danni del fuori stagione.”
E i danni del fuori stagione sono davvero tanti. Il momento difficile che sta vivendo l’agricoltura italiana non è qualcosa lontano da noi. Il riscaldamento globale e le soluzioni ambientali individuate a Bruxelles considerate inadeguate, la richiesta degli agricoltori italiani di riconsiderare prezzi più giusti all’origine della filiera, sono tutti elementi che pesano o dovrebbero pesare sulle scelte di chi lavora nell’enogastronomia.
“Non possiamo parlare di tradizione vera, di un ritorno all’origine, soprattutto nella cucina partenopea, se ragioniamo sempre e soltanto intorno a tre unici piatti. Tra l’altro proposti tutto l’anno senza minimamente considerare la questione della stagionalità – afferma Carlo – Questa parmigiana di melanzane servita anche a febbraio proprio no. Che sia la tradizione a darci la possibilità di parlare di stagionalità e di biodiversità con i nostri clienti. Semplicemente servendo i piatti nel loro periodo. Secondo quanto la terra ci propone. Questo è l’unico modo per tutelarla.”
L’alleanza come scelta di campo
La consapevolezza di quello che sta succedendo nel mondo dell’agricoltura e il modo in cui il settore degli addetti ai lavori dell’enogastronomia lo affronta, è la chiave di volta per contribuire a diffondere una coscienza “alimentare” diversa. È come una missione per alcuni che dovrebbe partire da chi fa comunicazione, giornalismo, da chi detta l’agenda dei temi. Ma anche dai ristoratori stessi che sono legati ai loro clienti da un vero e proprio rapporto di fiducia.
È la loro la decisione più importante. Ogni giorno, quella scelta è nei piatti del loro menù.
Ed è una vera e propria scelta di campo: in un contesto territoriale in cui tutti i menù offrono tout court sempre le stesse proposte, ogni mese, ogni stagione. Come combattere allora questa tendenza a quello che ironicamente potremmo definire “il menù fisso”?
“Difendere la stagionalità, i piccoli produttori, la biodiversità anche nei vini, è una opzione che comporta anche delle rinunce in termini commerciali. È ovvio che la proposta si riduce, è necessario avere un rapporto con il cliente più profondo, essere anche culturalmente sulla stessa linea. Il contesto non ci aiuta sicuramente, ma è necessario spiegare il perché di questa scelta che è alla base del patto che i cuochi dell’Alleanza e quindi noi ristoratori legati a Slow Food, facciamo con il territorio. È necessario riscoprire le nostri radici contadine, cercare di diffondere un’educazione agricola, far tornare le persone nei campi. Avvicinarle, quanto meno.”
Operazione banca della memoria.
L’abbiamo detto: la tradizione può essere il volano per difendere la stagionalità, le materie prime, la biodiversità, i diversi territori con i loro prodotti.
“Va fatta un’operazione di banca della memoria. Non disperdere ricette e piatti appartenenti alla vera e completa tradizione partenopea, ma conservarli e trasmetterli in un ricambio generazionale che tenga conto anche del cambiamento che stiamo vivendo. Cambiamento che si manifesta anche nei prodotti e nelle preparazioni.
“La tradizione della cucina napoletana – ci spiega Carlo – viene dal popolo e dall’aristocrazia insieme. Ci sono piatti come il Sartù, ad esempio, che sono simboli della tradizione, di un certo modo di fare cucina napoletana, e che non solo non vengono considerati, ma non si conoscono affatto.”
Ebbene sì, perché nella memoria collettiva dei napoletani non dovrebbe esserci solo la visione della “nonna ai fornelli”. Insieme alla nonna, va detto, c’erano altre figure che hanno contribuito a creare tesori preziosi della nostra cultura culinaria partenopea: i Monzù.
Tra il XVIII e XIX secolo i capocuochi delle case aristocratiche in Campania erano chiamati Monzù per dare loro il tono appropriato in un contesto di influenza gastronomica francese. Un punto di incontro tra la cucina napoletana e la cucina francese. Da cui sono venuti fuori alcuni piatti che oggi appartengono alla nostra tradizione.
Riprendiamo allora gli antichi volumi, se non ne avete a portata di mano potete sempre fare un salto da Sartù, nella libreria di Carlo. Riscopriamo le antiche ricette, osserviamo, curiamo, rispettiamo la terra e i suoi tempi e, vi assicuriamo, il nostro cibo assumerà tutt’altro sapore.
Ed è stato in quest’ ottica che, alla fine della chiacchierata con Carlo, abbiamo provato il piatto che ci ha proposto per lo speciale. Baccalà con lenticchie di valle agricola. L’unica lenticchia coltivata in Campania, considerata introvabile, ma che grazie allo sforzo e al lavoro di alcuni produttori contadini è possibile trovare in questo piatto incredibile da Sartù.
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