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Di Marcello Atzeni

31 Gennaio 2025

Di Marcello Atzeni

31 Gennaio 2025

Secondo una leggenda (scritta da Liliana Silesu su “Sanluri terra ‘e lori”), l’origine del buon pane di Sanluri si deve a due soldati, il legionario romano di nome Ciro, l’altro Vargiu, dunque sardo. Il primo rimase ferito in uno scontro guerresco contro i nuragici. Le sue ferite guarirono e lui rimase in Sardegna: una terra dove era giunto da conquistatore e dove invece finì per abitare.

A Ciro piaceva quasi tutto della sua nuova terra. “Ma non lo strano pane nero fatto di orzo, oscuro e sottile come la pelle di un cinghiale che veniva cotto fra due sassi roventi. Egli, essendo stato garzone da un fornaio, sapeva come confezionare il buon pane di grano, che profumava la mensa delle famiglie patrizie romane.

Si mise al lavoro con grande lena. Costruì un forno con fango e pietre, e decise che da quel giorno lui avrebbe prodotto il pane per i pastori che dalla montagna scendevano con le loro greggi per la transumanza, nella grande pianura del Campidano.
Il grano che ovunque maturava confuso con l’orzo e l’avena, venne raccolto da Ciro e da Vargiu.
Nuria nelle giornate di sole lo sfarinava con una macina a mano, mentre Sotgia, la bella e giovane ragazza figlia di un vecchio pastore, lo passava e ripassava attraverso alcuni crivelli fatti con i giunchi del vicino fiume, fino a ricavarne una farina giallognola mondata dalla pula. Era la semola del grano duro maturato nella meravigliosa terra di Sanluri.

Ciro impastò e lavorò quella semola sino a ricavarne tanti blocchi rotondi come dei cocomeri. Li dispose poi sopra una stuoia, dove ricoperti da un panno bianco, pian piano presero a fermentare. Dopo oltre due ore di fermentazione, facendo attenzione affinché non si sgonfiassero, con una pala di legno li mise dentro il forno, precedentemente riscaldato con le fascine.

Quando dopo un’ora di cottura vennero tolti dal forno. Erano dorati e grandi come il sole quando sorge, ed un buon profumo inondò tutta l’aria attorno alla capanna. Fu una grande festa. Vargiu e Sotgia per primi ne spezzarono uno ancora fumante, sbocconcellandone un pezzo ognuno e porgendone altri a Nuria ed ai vicini che attirati dal buon odore, erano accorsi per curiosare.

Ciro prese per compagna la brava e bella Sotgia, si costruì una capanna e visse con quella brava gente. Con l’aiuto di Sotgia e del piccolo Vargiu, continuò e ingrandì il suo lavoro. Ben presto quel pane così profumato e saporito veniva ricercato da tutti, anche dagli abitanti dei vicini Nuraghi, che pagavano con uova, formaggi, lana e utensili in bronzo e terracotta.

Ma bisognava dare un nome a quel pane, per distinguerlo dagli altri che venivano confezionati nella zona. Lo chiamarono ora Ciro ora Vargiu, e a volte col binomio dei due amici Ciro-Vargiu, poi con l’andar del tempo venne chiamato CIVARGIU.

Dopo tanti secoli, quel grosso e profumato pane, confezionato con la semola del meraviglioso grano di Sanluri, viene chiamato CIVRAXU. A testimonianza dei vincoli di fraterna e profonda amicizia che legarono anche nella nobiltà del lavoro, il bravo legionario romano Ciro a quel ragazzo sardo di nome Vargiu, figlio di Nuria sua salvatrice, che abitava in quella collina al di là del fiume, dove oggi vive e prospera la laboriosa cittadina di Sanluri.”

Il racconto leggendario della Silesu, sta a testimoniare l’antichità di questo pane. Nel 1904, Francesco Corona, nella sua monografia dedicata al paese, parla di “un pane di grosse dimensioni, chiamato civraxu, il cui nome deriverebbe da cibario, il panis cribarius degli antichi romani. Insomma, magari sono stati proprio i latini a diffondere in quello che era il granaio di Roma (Marmilla-Trexenta) quest’alimento che poi ha colonizzato tutto il meridione della Sardegna.

Il Civraxu di Sanluri è famoso almeno quanto la spianata di Ozieri o il pane carasau (carta da musica) del nuorese. Sino ad una quarantina di anni fa veniva prodotto nelle case delle massaie. Oggi il buon numero dei panifici presenti in paese e la buona qualità del prodotto sfornato, fanno sì che di fatto non esista più un pane casalingo o artigianale.

Durante la Festa del Borgo (quando amministrazione comunale, Pro Loco ed altre associazioni sanluresi si riuniscono per la riscoperta del grazioso centro storico), alcune donne del posto fanno delle dimostrazioni sul come si panificava in casa negli anni che furono. Se oggi è solo un bel ricordo, allora confezionare il civraxu (o sa costedda o su coccoi) era un vero e proprio rito. Un lavoro immane, che coinvolgeva tutta la famiglia, ed iniziava con la molitura del grano duro. Molitura che veniva eseguita con sa moba sarda tirada de su burriccheddu, chiamato anche mobenti, cioè colui che “mobidi”, macina.

Praticamente ci si alzava alle due-tre di notte per iniziare il lavoro. Utensili o recipienti come su sedatzu, sa scivedda, sa mesa ‘e fai pani, sono nel ricordo di chi lavorò in quei tempi difficili, ma senza lo stress quotidiano di oggi.

Il pane, appunto considerando la lunga fatica per produrlo, naturalmente non veniva fatto tutti i giorni, ma all’incirca ogni due settimane. Il civraxu di allora ben confezionato, manteneva una sua morbilità anche a distanza di tempo. Difficile allo stato attuale, comprare il pane, conservarlo per almeno una settimana e consumarlo normalmente.

Parlare dei tempi passati rallegra lo spirito dei nostri vecchi, che vissero quegli anni come un’epopea.

Tornando al nocciolo, come si produce oggi un buon civraxu? Lo spiegò Mario Piras, originario di Gonnosfanadiga e arrivato a Sanluri da ragazzo, andato a riposare da qualche anno da qualche parte, che fu proprietario per molti anni fa di uno dei più rinomati forni sanluresi.

Quali sono dunque gli ingredienti per il panis cribarius? “Innanzitutto la farina doppio zero, se si parla di grano tenero, o la semola di grano duro. Volendo si può anche utilizzare la farina nera (su scetti) e il pane, naturalmente, sarà scuro. Poi la giusta quantità di sale, quindi “su frumentu sardu”, cioè il lievito naturale e acqua tiepida, ma questo dipende dalla stagione e dunque dalla temperatura.

Prima s’impastava a mano, adesso esistono le impastatrici che semplificano di molto il lavoro. Dopo aver miscelato semola, sale , acqua e lievito, la massa viene messa a lievitare per circa un’ora. Dopo , si fanno le forme, prima si usava “sa crobedda piticca” , oggi si adopera un colapasta.” Suddiviso l’impasto in pani di notevole grandezza, si lasciano ancora lievitare dentro i recipienti. Nel frattempo si prepara il forno, “una volta erano a legna – spiegò ancora Mario Piras – oggi sono più usati quelli a vapore, che consentono una maggiore igiene.

Dopo aver disposto i pani, all’interno del forno, una cottura di un’ora è sufficiente per ottenere un fragrante prodotto.” Il civraxu di Sanluri (che qualcuno chiama “modditzosu” o “moddixia”), pesa dai due chili e mezzo ai tre chili e duecento grammi. “Ma – aggiunse l’esperto panificatore – è possibile farlo anche di sei/sette chili. Naturalmente questa è un’eccezione.”

Tornando all’impasto, “la macchina, ne esistono di grandezze diverse a seconda delle esigenze, lavora gli ingredienti per circa mezz’ora. Ma c’è chi ferma la macchina e fa compiere la lavorazione in due o più riprese. Personalmente preferisco un’unica operazione.” Questo raccontò Mario Piras. Da un quintale di farina o di semola, si ha un aumento del 25-30 per cento. Secondo molti fornai la semola migliore proviene dal grano duro “Cappelli” (che prende il nome dal genetista che isolò la cultivar di Triticum durum). Questa varietà di frumento, in pieno campo, produce non più di 25 quintali ad ettaro (contro i molti quintali in più di altre cultivar), ma essendo di qualità migliore spunta un maggior prezzo sul mercato.

Il civraxu di Sanluri è quasi un panettone, solo che non si consuma esclusivamente nei giorni di festa, ma tutti i giorni della settimana. Se è vero che il consumo di pane diminuisce nella fascia d’età scolare e pre-scolare (i bambini e i ragazzi sono attirati dalle ipercaloriche merendine) è altrettanto vero che il paese sta cercando in tutti i modi di valorizzare al meglio questo suo “figlio” illustre.

Così per la Festa del Borgo o nei giorni di carnevale, viene riproposta la classica bruschetta. Una fetta di buon pane, olio d’oliva e sale, quindi viene abbrustolito e va che una meraviglia.

Ma è anche altrettanto certo che in paese arrivano ancora i cagliaritani per comprare questo nobile alimento. In alcuni casi, in certe panetterie del capoluogo, si esponevano cartelli con una scritta “Qui si vende pane tipo Sanluri”. Praticamente dei fornai provenienti da paesi del circondario, hanno provato ad imitare il panettone di tutti i giorni. A qualcuno pare sia andata anche bene, ma nella maggior parte dei casi si è trattato solo di esperimenti culinari estemporanei.

Se “regnasse” l’autarchia, nei negozi potrebbero apparire dei cartelli recitanti questa scritta, “Esigete sempre il buon civraxu di Sanluri”.
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Marcello Atzeni

Nato a Baradili 59 anni fa, abita a Sanluri da oltre 40 anni. Agrotecnico, segretario dell’ordine regionale dei biologi, giornalista e scrittore. Autore Rai, collabora dal 1986 con l’Unione Sarda.
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