Tra la fine di ottobre e l’inizio di novembre, quando il giorno cede spazio alla notte con l’autunno che mostra il suo volto più quieto e la campagna si prepara al riposo, in Sardegna si rinnova un rito antico quanto l’isola, quello de “Is Animeddas”, la festa delle anime.
Già in epoca nuragica si credeva che la morte non fosse una fine, ma un passaggio che vedeva l’abbandono del corpo per accedere a una nuova dimensione spirituale. Non è un caso se tra le testimonianze più antiche dell’isola figurano le Domus de Janas e le Tombe dei Giganti, luoghi di sepoltura che raccontano il profondo legame dei nostri antenati con il mondo ultraterreno.

La soglia tra i mondi
Nella notte tra il 31 ottobre e il 1° novembre — si racconta — la soglia tra il mondo dei vivi e quello dei morti si assottigliava fino quasi a scomparire. Le anime penitenti del purgatorio tornavano così nelle case, accolte da chi restava con una preghiera, una candela accesa e un’offerta di cibo.
Vivere Is Animeddas significa prendere atto che le anime non svaniscono, ma camminano accanto a noi. È un momento in cui le case si riempiono di presenze silenziose, la tavola si prepara per coloro che bisogna tenere a memoria e i bambini questuano per le strade in loro suffragio chiedendo doni in loro memoria.
Semi nel ventre della terra
In questo tempo sospeso, non è la luce ma il buio a reggere il mondo. È il buio fertile, l’umidità che accoglie il seme e custodisce la vita prima della rinascita. Gli avi dormono nella terra e da loro dipende il raccolto del mondo.
Il gesto di lasciare vivande sulla tavola, di accendere un lume o di spalancare la porta non è superstizione, è riconoscimento. È dire alla terra e a sé stessi che nulla va perduto, che ciò che muore non svanisce ma si trasforma.

La memoria viva di “Su Pendi Pendi”
In molti paesi della Sardegna, la sera del primo novembre, la festa prendeva forma nel ricordo di Su Pendi Pendi. I bambini, vestiti di stracci per ricordare Is Animeddas, le anime sofferenti del Purgatorio, giravano di casa in casa con un sacchetto di juta o un cestino intrecciato, bussando ai portoni e chiedendo un piccolo dono.
“Animas de prugadoriu, Ave Maria!” recitavano all’unisono, invocando le anime dei trapassati. Vietato non aprire, infatti in quel momento, quei bambini rappresentavano i defunti stessi, e negare loro un dono sarebbe stato come rifiutarlo all’anima di un parente.
Le donne li aspettavano sulla soglia per offrire quanto di meglio disponevano. Fichi secchi, arance, melagrane, noci, mandorle, qualche dolcetto fatto in casa o una fetta di pane e lardo. I più abbienti aggiungevano una moneta.
Rientrati a casa, i piccoli recitavano una preghiera prima di assaporare il raccolto, in suffragio delle anime che avevano evocato.
Dopo il suono del vespro, si usava offrire ai campanari una zuppiera di pasta, del pane e del vino, “po s’anima de su biadu”, per l’anima del defunto, che consumavano frugalmente nel campanile per poi continuare a suonare tutta la notte e il giorno successivo le campane a morto. I rintocchi si diffondevano lenti, ininterrotti, come un filo invisibile tra terra e cielo.

La luce che guida le anime
Ogni famiglia accendeva “sa lantia”, un lumicino fatto con uno stoppino imbevuto d’olio, infilato in un pezzetto di sughero e posato su una ciotola d’acqua. Ogni fiamma era una guida per un’anima, una piccola lanterna che ardeva fino alla mezzanotte del giorno dopo.
Sulla tavola dopo la cena, si lasciava un piatto con della pasta, un po’ di formaggio, pane, vino e dolci. Ma nessun coltello – diceva la tradizione – perché le anime avrebbero potuto farne cattivo uso. E se i defunti non si fossero presentati, il cibo sarebbe stato consumato dai vivi il giorno dopo perché nulla si doveva sprecare ne andare perso.

Dolci per Is Animeddas
Il profumo che riempiva le case in questi giorni era quello della sapa e delle mandorle tostate.
Tra i dolci più simbolici ci sono is Ossus de mottu, le “ossa dei morti”. Biscotti ruvidi e bianchi, friabili, fatti di pochi ingredienti ma dal gusto deciso. Poi su Pan’e saba, is pistoccheddus de cappa, is amarettus e is pabassinas, piccoli concentrati di autunno, impastati con uvetta, noci, miele e farina nuova.
Dolci che sono preghiere e gesti d’affetto che attraversano le generazioni.
Oltre la Sardegna: isole che si parlano nel vento
L’isola non è sola nel custodire questo rito di soglia. In Irlanda, nello stesso periodo dell’anno, si celebra la Samhain, la fine dell’estate e l’inizio del tempo oscuro. Anche lì si accendono fuochi e si lasciano offerte per i morti. Da quella radice celtica nasce Halloween, All Hallows’ Eve, ma sotto le maschere e i dolci sopravvive la stessa consapevolezza, ovvero che la vita è un ciclo, e i confini sono passaggi.
Nel Mediterraneo, in Sicilia, i bambini ricevono doni “dai morti”, in Grecia si ricordano i defunti nei riti di Persefone, e in Nord Africa si offrono pane e datteri alle tombe.
Ogni popolo, con i suoi gesti, dice la stessa cosa, che la terra è madre e tomba, grembo e nutrimento.

La morte e il lutto in Sardegna
Fino a pochi decenni fa, la morte in Sardegna coinvolgeva l’intera comunità. Il corpo del defunto veniva deposto e ricoperto con su Tapinu ’e mortu, un tappeto speciale realizzato a mano e arricchito con decori geometrici, zoomorfi e antropomorfi. Simboleggiava il passaggio verso l’aldilà e rappresentava le diverse età della vita che accompagnavano l’anima nel viaggio post-mortem. Attorno a lui si riunivano le donne, parenti e vicine, che piangevano e cantavano il S’Attidu, il lamento funebre. Erano le Attitadoras, custodi del dolore collettivo.
Gli uomini, in segno di lutto, si lasciavano crescere la barba, le donne vestivano di nero e giallo, colori della fine e del ritorno. Dopo il funerale, si offriva caffè e dolci sardi, e a un mese di distanza, la famiglia donava pacchi di cibo a parenti e amici, un modo per trasformare la perdita in condivisione.

Il respiro della terra
In un mondo che tende a rimuovere la morte e la memoria, questi riti restano un atto di resistenza culturale. Sedersi accanto a un posto vuoto, accendere una lanterna, lasciare un piatto di cibo sono gesti che uniscono i vivi e i morti, ricordandoci che “io esisto perché tu sei stato”.
Gli avi non appartengono al passato. Vivono nel modo in cui impastiamo il pane, nel tono con cui chiamiamo chi amiamo, nella consapevolezza di appartenere a una stessa terra.
Sono semi nel ventre della terra, invisibili ma vivi, pronti a germogliare ogni volta che qualcuno li ricorda.






