Amphora Revolution al VINITALY 2025: tecnica antica, visione contemporanea
VINITALY 2025 si è appena concluso e, anche per chi come me lo vive dall’interno – per lavoro, per curiosità e per continua formazione – resta un appuntamento fondamentale per capire dove sta andando il vino italiano.
È stata un’edizione viva, intensa, ricca di stimoli. Tra le tante cose viste e assaggiate, ce n’è una che mi ha colpito più di tutte: il ritorno consapevole all’uso dell’anfora.
Non è una novità passeggera né una moda da salotto. L’anfora ha una storia lunga millenni. In Georgia, già 8.000 anni fa, si fermentava il vino in QVEVRI, grandi contenitori in terracotta interrati. I Greci e poi i Romani ne hanno fatto il mezzo principale per conservare e trasportare il vino in tutto il bacino del Mediterraneo.
Anche in Italia, gli Etruschi utilizzavano l’anfora nella vinificazione, sfruttando la porosità della terracotta per far respirare il vino in modo naturale.
Poi sono arrivate le botti, più pratiche, e l’anfora è sparita per secoli. Ma oggi alcuni produttori hanno deciso di recuperarla. Non per nostalgia, ma per visione. Perché l’anfora non interferisce con il vino, non lo rende più aromatico come fa il legno, ma lo accompagna. Permette una micro-ossigenazione delicata e costante. Fa maturare il vino in modo pulito, lento, rispettoso. In certi casi lo esalta, lo affina, gli toglie il superfluo.
È in questo contesto che si inserisce Amphora Revolution, l’evento all’interno di VINITALY 2025 organizzato in collaborazione con il Merano Wine Festival. Un racconto corale di circa venti produttori che hanno scelto l’anfora come segno identitario e tecnico. Terracotta, cocciopesto, ceramica: ogni materiale racconta una diversa sensibilità, ma il punto è comune – dare voce al vino senza distorsioni.
C’è chi usa l’anfora solo in fermentazione, chi in affinamento, chi per l’intero processo. Chi lavora in ossidazione, chi in totale riduzione. Quello che ho percepito è una ricerca condivisa di essenzialità. Una volontà precisa di restituire al vino il suo carattere più nudo, più vero. Tra gli assaggi, ne ho selezionati tre che mi hanno convinta per coerenza, pulizia espressiva e originalità.
Kyathos 2017 – La Vite dei Fratelli Lizzio (Sicilia)
Un rosso delle Terre Siciliane IGP da 80% Nerello Mascalese e 20% Nerello Cappuccio, fermentato e affinato in anfora. L’azienda, gestita da Antonio e Dino Lizzio, si trova nella frazione Presa di Piedimonte Etneo, a circa 600 metri sul livello del mare, ai piedi dell’Etna. Qui, su suoli vulcanici, la viticoltura è ancora familiare e radicata, con vigneti ad alberello coltivati secondo metodi tradizionali tramandati dal nonno. Kyathos 2017 è un vino elegante, con note di ciliegia, spezie e un tocco ferroso. L’anfora alleggerisce i tannini e dà precisione, risultando in un vino nitido, diretto, con una voce netta del territorio.
Rukh 2022 – Nove Lune (Lombardia)
Orange wine biologico da vitigni PIWI: Bronner e Johanniter. Le uve fermentano e macerano sulle bucce in anfore di terracotta, senza controllo meccanico, con follature manuali. Nove Lune, fondata da Alessandro Sala a Cenate Sopra (BG), è una cantina biologica che coltiva vitigni resistenti alle malattie fungine, eliminando quasi completamente l’uso di anticrittogamici e totalmente quello di altre sostanze chimiche. Il risultato è un vino intenso ma misurato, con agrumi, erbe secche, mineralità e un sorso vivo e profondo. Un orange rigoroso, mai eccessivo.
035 2023 – Pietramatta (Lombardia)
Rosato da Moscato di Scanzo e una quota di Merlot, vinificato in rosa e affinato in anfora di ceramica. Pietramatta è un laboratorio artigianale nella Bergamasca, dove ogni scelta – dalle varietà agli affinamenti – è guidata da curiosità e rigore. Profumatissimo ma secco: pompelmo rosa, salvia,
marasca, muschio. Sorso vibrante, vibrante, elegante, mai compiacente. Un vino che spiazza e convince.