C’era da aspettarselo. Non perché siamo un popolo modesto, ma perché da anni il mondo vive in uno stato di perenne illusione credendo che spaghetti scotti, “parmisan” in polvere, mozzarelle che somigliano a delle provole e carbonare con la panna fossero una forma accettabile di civiltà.
Ora l’UNESCO ha messo un punto fermo nella storia della cultura enogastronomica mondiale, facendo entrare dalla porta principale e con il tappeto rosso, la cucina italiana nella Lista Rappresentativa del Patrimonio Culturale Immateriale. Tradotto, non è solo buona, non è solo famosa, è ufficialmente una questione identitaria planetaria.
E lo ha fatto con una formula che già da sola suona come una promessa di felicità: “La cucina italiana, tra sostenibilità e diversità bioculturale”. Una definizione che sembra scritta da un sociologo innamorato dei tortellini.
Non solo monumenti: quando il patrimonio è qualcosa che si mangia
L’UNESCO, da decenni si occupa di proteggere ciò che rende il mondo interessante. Dalle piramidi d’Egitto, alla Grande Barriera Corallina, fino alle Dolomiti, e il Serengeti. Luoghi unici che raccontano la storia dell’umanità, che non servono solo a riempire le guide turistiche, ma a ricordarci fin dove può arrivare la creatività dell’uomo e la bellezza della natura.
Ma dal 2003 l’Organizzazione ha deciso di fare un salto di qualità. Tutelare e valorizzare on solo pietre, montagne e cattedrali, ma anche tradizioni vive. Quelle che non si fotografano facilmente, ma si praticano ogni giorno. Il cosiddetto Patrimonio Culturale Immateriale, dove abitano il canto lirico, le feste popolari, le pratiche artigianali e, ovviamente, il cibo inteso come cultura e non come semplice carburante biologico.
E l’Italia? Ovviamente in prima fila. Siamo il Paese con il maggior numero di siti UNESCO al mondo: 61 patrimoni mondiali tra città, paesaggi, vulcani, colline, vigne e faggete. Ma mancava qualcosa. E quel qualcosa era nell’aria da tempo, non un piatto, non una tecnica, non un rito singolo, ma la cucina italiana come sistema completo.


Oltre alle ricette, un modo di stare al mondo
Ed ecco la svolta, per la prima volta nella storia dei riconoscimenti UNESCO, non viene premiata una singola tradizione culinaria, ma un’intera tradizione gastronomica nella sua globalità.
Non solo la pizza (già patrimonio con l’arte del pizzaiuolo napoletano), non solo la Dieta Mediterranea, non solo il tartufo o la vite ad alberello di Pantelleria. Qui si parla di un sistema complesso fatto di gesti, rituali, conoscenze, stagionalità, filiere agricole, mercati rionali, nonne, zii esperti di sugo, bar di provincia e tavolate infinite la domenica.
Secondo la documentazione UNESCO, la cucina italiana è una pratica quotidiana stratificata, che si fonda sulla trasmissione familiare e comunitaria. Non è una collezione di ricette inchiodate su un libro, ma un sapere che si reinventa ogni giorno, restando sorprendentemente fedele a sé stesso.
In altre parole, è l’unico organismo vivente che riesce a far discutere dieci persone per tre ore sulla corretta mantecatura del risotto.
Perché l’UNESCO ha detto sì (e avrebbe fatto fatica a dire no)
Per entrare nella Lista dell’Immateriale non basta essere buoni. Bisogna essere rappresentativi della creatività umana, trasmessi di generazione in generazione, capaci di creare identità, dialogo e rispetto.
La cucina italiana ha spuntato tutte le caselle.
È sostenibile, perché nasce da una cultura del riuso e del non-spreco quando il termine “zero waste” non era ancora diventato una voce motivazionale su Instagram. È inclusiva, perché mette tutti intorno allo stesso tavolo senza chiedere il curriculum alimentare. È comunitaria, perché il cibo è ancora una scusa sacra per stare insieme. Ed è biodiversa, perché ogni regione è un continente e ogni provincia una nazione culinaria.
E qui arriva il bello, l’UNESCO ha riconosciuto non solo la bontà dei piatti, ma il loro valore sociale. Il fatto che attraverso una lasagna, un piatto di legumi, un minestrone o una focaccia, si trasmetta un’idea di mondo.
Nuova Delhi, applausi e un po’ di commozione nazionale
La candidatura era stata promossa nel 2023 dal ‘Collegio Culinario Associazione culturale per l’enogastronomia italiana’ in collaborazione con Casa Artusi, l’Accademia della Cucina Italiana e la rivista ‘La Cucina Italiana’. E dopo due anni, la decisione è stata presa a Nuova Delhi, durante la ventesima sessione del Comitato Intergovernativo dell’organizzazione, confermando la valutazione preliminare positiva dello scorso novembre. Quando l’iscrizione è stata approvata, la delegazione italiana – guidata dal ministro degli Esteri Antonio Tajani – non ha nascosto la commozione lasciandosi andare in un meritato applauso.
Lo stesso governo italiano ha parlato di riconoscimento storico che onora l’identità nazionale. E questa volta non era retorica, perché il cibo, per gli italiani, è davvero una lingua madre.
Siamo diventati il primo Paese al mondo a vedere riconosciuta la propria cucina come sistema culturale completo. Non una tecnica, non un prodotto, ma un universo.
Una vittoria culturale, ma anche una questione molto concreta
Qui bisogna essere pragmatici perché non si vive solo di poesia. Il riconoscimento ha un impatto concreto, quasi brutale per quanto è reale. L’Italia esporta ogni anno circa 70 miliardi di euro di prodotti agroalimentari ed è leader europea per valore aggiunto agricolo. Questo status UNESCO non è solo una medaglia da appuntarsi sul petto, ma un’arma diplomatica e commerciale potentissima.
Tradotto in termini concreti, questo riconoscimento rappresenta un argine istituzionale contro il fenomeno dell’“Italian sounding” e contro la diffusione di prodotti che utilizzano nomi, immagini e riferimenti all’Italia senza alcun legame reale con le nostre filiere. Non più formaggi che evocano il Parmigiano Reggiano senza aver mai incrociato una mucca allevata in Italia, non più paste ribattezzate con vezzeggiativi pseudo-italiani, non più versioni industriali e banalizzate di piatti simbolo come la carbonara. Il sigillo dell’UNESCO non è soltanto un titolo di prestigio, ma una legittimazione internazionale che riconosce la cucina italiana come patrimonio culturale da tutelare, trasmettere e difendere, al pari dei grandi beni materiali dell’umanità.
Il paradosso più italiano di tutti
Ed eccoci al vero capolavoro. L’UNESCO ha riconosciuto ufficialmente un sistema che, per definizione, è impossibile da mettere d’accordo. Non esiste “la” cucina italiana. Esistono mille Italie a tavola. La stessa ricetta cambia da paese a paese, da famiglia a famiglia, da nonna a zia non acquisita. Eppure, in questo caos organizzato, il mondo ha visto un ordine. Una grammatica comune.
È come se l’UNESCO avesse detto: “Non capiamo perché litigate così tanto, ma quello che fate è geniale”.
Più che un premio, una responsabilità
Questo riconoscimento non è solo una celebrazione. È un impegno. L’UNESCO non distribuisce diplomi da attaccare in cucina, ma richiede tutela, trasmissione, protezione.
Significa educare, preservare, raccontare. Significa continuare a cucinare come atto culturale, non come semplice consumo. Significa difendere la stagionalità, la biodiversità, le filiere, le comunità. E, soprattutto, significa non tradire noi stessi.

In conclusione, ora possiamo dirlo senza sembrare arroganti (ma lo diremo con eleganza)
La cucina italiana è Patrimonio dell’Umanità non perché siamo più bravi degli altri. Ma perché, senza rendercene conto, abbiamo trasformato un gesto quotidiano – cucinare – in una forma di cultura collettiva.
Non è solo pasta. Non è solo pizza. Non è solo vino. È una mappa affettiva, un archivio di memorie, una grammatica emotiva fatta di sughi che sobbollono piano e mani infarinate.
Ora è ufficiale. Ed è giusto brindare. Magari con un prosecco vero. E magari accompagnandolo con delle tagliatelle al ragù. Quello vero. Ma qui, ovviamente, si aprirebbe un altro dibattito.
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