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Slow Wine Fair – 2. Storie di vini e di persone

I lettori – pazienti assai, immagino – del primo articolo sulla Slow Wine Fair si saranno domandati: “E i vini? Possibile che nessuno fosse degno di essere menzionato?”

Ovviamente non è così; anzi, meritano una descrizione a parte, che provo a condensare in tre tappe preferendo una narrazione aneddotica a noiosi elenchi di assaggi e note degustative.

I. Partiamo dal Piemonte, da una zona che è nel cuore di tutti gli appassionati di vino, non soltanto italiani: le Langhe. Qui, precisamente nel comune di Barolo, c’è Vajra (G. D. Vajra).

Il nome in sanscrito starebbe a indicare la purezza e l’invincibilità del Buddha; è invece con la “i”, quindi Vaira, il cognome di Aldo e Milena che, con i figli Giuseppe, Francesca e Isidoro, conducono una delle più note aziende della denominazione, tra l’altro – aspetto rilevante, visto che siamo alla Slow Wine Fair – in regime biologico da circa cinquant’anni.

La parte più prestigiosa della produzione è costituita naturalmente dai Barolo – con i due cru (ehm… MGA) Ravera e Bricco delle Viole a fare incetta di premi e riconoscimenti – ma anche gli altri vini, Nebbiolo, Dolcetto, Barbera, Freisa, Riesling, Moscato ecc. sono assolutamente meritevoli di attenzione.

Ed è proprio su uno di questi, il Langhe Nebbiolo Claré J.C., che desidero soffermarmi.

È un vino nato con l’intento di ritrovare l’antico gusto del nebbiolo, diverso da quello cui siamo abituati oggi, frutto dei profondi cambiamenti nella coltivazione e nella vinificazione ispirati da Juliette Colbert a partire dal 1845.

Thomas Jefferson, autore della Dichiarazione d’Indipendenza nonché, in seguito, terzo Presidente degli Stati Uniti d’America, avendolo assaggiato nel periodo trascorso in Europa in qualità di diplomatico, nel 1787 lo descriveva “brioso come i vini di Champagne, dolce come i vini di Madera e strutturato come i vini di Bordeaux”; del resto, dallo studio dei documenti dell’epoca, appare evidente una diffusa preferenza per vini frizzanti e dolci.

Si tratta, quindi, di una vera e propria rivisitazione del nebbiolo di un tempo, il cui protocollo di vinificazione era ispirato agli appunti di Giovanni Battista Croce, contenuti nell’opera “Della eccellenza e diversità de i vini che nella Montagna di Torino si fanno e del modo di farli”, pubblicata nel 1606.

Il vino viene perciò imbottigliato subito dopo la fermentazione, con l’intento di mantenere una buona vivacità e un finale lievemente abboccato: risulta piacevole e “di pronta beva”, per usare un’espressione cara a Luigi Veronelli, capace dunque di avvicinare i giovani al mondo del Nebbiolo, in maniera che un domani possano amare anche il Barolo.

La foto di copertina ritrae Isidoro Vaira con i vini presentati a Bologna: gli ultimi due a destra sono i cru di Barolo citati, dei quali il Ravera, incluso con l’annata 2015 tra i 131 migliori vini italiani secondo la rivista americana Wine Spectator, sarà degustato il 5 aprile a Verona in occasione di OperaWine.

II. Per la seconda tappa ci spostiamo in Veneto.

Nel mondo del vino italiano ci sono famiglie che si occupano di vino da secoli. Il caso più noto è quello degli Antinori, che si dedicano alla produzione vinicola da 26 generazioni.

La famiglia Gini, la cui azienda nella forma attuale è stata fondata nel 1980, possiede decine di ettari di vigneto a Monteforte d’Alpone, nel cuore della zona del Soave, dal 1570 e da 15 generazioni coltiva la Garganega – il vitigno con cui si fa il Soave – in 10 cru storici per un totale di circa 60 ettari, su suoli vulcanici e con viti che hanno tra i 70 e i 140 anni di età (alcune a piede franco), dalle quali deriva il Soave Classico “Vecchie Vigne Contrada Salvarenza” 2022.

Vino intenso e di raffinata profondità, mostrato nella foto. Della stessa etichetta presente in Fiera anche la magnum dell’annata 2014 – considerata generalmente minore e meno longeva, a causa di un’estate insolitamente piovosa, ma in questo caso ancora in ottima forma – per mostrarne le capacità di evoluzione.

Altro magnifico cru aziendale di Soave è “La Froscà”, che solitamente contende al precedente il favore dei degustatori, quest’anno incluso anch’esso, con l’annata 2015, tra i 131 migliori vini italiani che parteciperanno a OperaWine.

Aggiungo che tutta la batteria di vini presentata da Matteo Gini (a destra nella foto) è apparsa di livello veramente alto, senza alcun punto debole, con vini, dallo spumante metodo classico “Camillo” 2018 all’Amarone della Valpolicella “Monte Serea” 2015, di grandissima eleganza.

III. La migliore conclusione di questa breve rassegna dei vini assaggiati in Fiera non può che essere… Un vino da fine pasto. Un vino che definire “da dessert” sarebbe riduttivo, meglio considerarlo “da meditazione”.

Mi riferisco al Moscato Passito di Saracena, vera e propria perla enologica di una regione, la Calabria, in grande ascesa dal punto di vista vitivinicolo, presentato a Bologna in una versione speciale in occasione del Giubileo, per celebrare i 500 anni di presenza alla Corte dei Papi, e dei vent’anni dall’inserimento tra i presidi Slow Food.

La valorizzazione di questo vino – ma forse è più giusto parlare di salvataggio dall’estinzione – si deve a Luigi Viola, classe 1941, insegnante a Saracena, comune in provincia di Cosenza compreso nell’area del Parco Nazionale del Pollino.

Tutto cominciò nel 1975, con un vigneto ricevuto in eredità che costituì lo stimolo iniziale per ricostruire il “Protocollo di produzione del passito”, tramandato solo oralmente. Attraverso una accurata ricerca su testi dei secoli precedenti, Luigi riuscì a dare basi scientifiche al Protocollo orale e, coadiuvato da consulenti tecnici, ad avviare il processo produttivo del Moscato Passito, conservando gli elementi distintivi dell’antica produzione.

In particolare i due processi paralleli: la bollitura, che consente la concentrazione del mosto ottenuto da uve Malvasia e Guarnaccia, e l’appassimento sui graticci dell’uva Moscatello con, a volte, anche piccole quantità di Duraca (detta anche, in dialetto, “Adduroca”, altra uva aromatica molto profumata), i cui acini passiti, accuratamente selezionati, vengono sottoposti a una delicata pressatura e aggiunti al mosto bollito di cui sopra.

Segue una lenta fermentazione, al termine della quale si ottiene un vino dolce di colore giallo ambrato e dalla spiccata aromaticità, con note di fichi secchi, miele e frutta candita.

Nella foto Alessandro Viola (Cantine Viola) con una bottiglia della versione speciale del Moscato Passito di Saracena “Luigi Viola”.

Bene, siamo giunti al termine di questo inevitabilmente lacunoso percorso. In una fiera così grande se ne potrebbero immaginare molti altri, magari legati da un vero filo conduttore, che in questo caso è stato semplicemente quello della qualità, altissima, nonché – e qui mi dichiaro colpevole – delle mie personali preferenze.

Slow Wine Fair 1° parte Link

Uomo sorridente all'aperto

Domenico Capogrossi

Di formazione scientifica, quando il lavoro di docente glielo consente, coltiva la passione per il vino, andandosene in giro ad assaggiarne e cercando di scrivere qualcosa di “leggibile”.Alcuni diplomi gli conferirebbero un briciolo di credibilità ma… Meglio non fidarsi
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