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C’è stato un tempo in cui lavorare nella ristorazione era una scelta identitaria. Un mestiere che si apprendeva con dedizione, osservando, ascoltando, sbagliando. Un percorso fatto di costanza e di cura, dove la passione era il motore e il rigore la forma.

Oggi quel tempo sembra lontano. Le cucine brillano sui social, le sale si svuotano di professionisti. Il settore arranca per mancanza di persone. Di quelle giuste.

Negli ultimi anni, la ristorazione ha subito un cambiamento profondo. La pandemia ha solo accelerato un processo già in corso, portando alla luce le contraddizioni di un sistema che si regge troppo spesso su turni estenuanti. Non si tratta solo di orari lunghi: è il fatto che si lavora quando il resto del mondo vive — la sera, nei weekend, durante le feste.

Anche uno stipendio dignitoso fatica a compensare il prezzo di quei momenti persi. Così il lavoro ha perso attrattiva, soprattutto per i più giovani. Il ricambio è quasi assente, e sono sempre meno quelli che scelgono consapevolmente di lavorare in sala, di fare i maître, i sommelier, i camerieri.

I riflettori restano sulla cucina, mentre la sala scivola ai margini, invisibile.

Eppure è proprio lì che si gioca la qualità dell’esperienza. Secondo un’analisi di Confcommercio, nel 2025 il divario tra domanda e offerta di lavoro nella ristorazione potrebbe crescere ancora, con una carenza crescente di camerieri, cuochi, barman, pizzaioli.

A confermare la tendenza è anche il rallentamento della crescita del settore: secondo i dati Istat e Fipe, nel 2024 il fatturato della ristorazione si è fermato a un +0,7%. I consumi nel comparto horeca hanno mostrato una leggera crescita (+2,4%), ma il forte calo nei cash&carry evidenzia un settore che fatica a mantenere la propria stabilità.

Questi numeri riflettono una crisi economica e un cambiamento strutturale: il lavoro c’è, ma sempre meno persone sono disposte a farlo.

Il paradosso è evidente. I professionisti qualificati sono pochi, il turnover è altissimo, la formazione spesso inesistente. Chi ha conosciuto com’era la ristorazione vent’anni fa, oggi fatica a riconoscerla.
In questo scenario, ci sono ancora figure che resistono. Non per abitudine, ma per convinzione.

Giovanni Starace è una di queste. Maître d’hotel e sommelier all’hotel Angiolieri di Seiano, segue con attenzione e rigore ogni aspetto del servizio: due ristoranti, una pizzeria, un bar, il room service.

Una regia silenziosa che tiene insieme tutto, senza protagonismi. La sua è una professionalità fatta di misura, precisione, capacità di ascolto. Il vino è il suo campo d’elezione, con una competenza profonda sul Riesling e un amore dichiarato per la Mosella.

La sua carriera nasce da lontano. Dopo aver studiato all’Istituto Tecnico Nautico, scopre la sua passione per il vino lavorando nella cantina del ristorante La Buca di Bacco di Positano. Prosegue la sua esperienza in Germania, lavorando in un ristorante italiano ad Augusta, dove matura il desiderio di aprire un locale tutto suo.

Quel sogno si concretizza con “Da Giovanni”, un ristorante di cucina partenopea che valorizza i vini campani. Già negli anni ’90 inizia a sperimentare gli abbinamenti tra cibo e vino che lo porta a frequentare un corso da sommelier presso AIS Monaco di Baviera. Resta in Germania per vent’anni, per poi rientrare in Italia nel 2004.

Giovanni Starace è una di quelle figure che, in un settore sempre più disorientato, restituiscono senso al mestiere. E proprio per questo, a lui abbiamo voluto rivolgere alcune domande:
Com’è cambiata la ristorazione in questi anni?

“Un tempo, lavorare nella ristorazione significava appartenere a una tradizione di ospitalità. I maître italiani erano riconosciuti in tutto il mondo per la loro eleganza e competenza. Chi svolgeva questo lavoro ne andava fiero, lo considerava un’arte e un segno di professionalità, un mestiere che richiedeva dedizione e orgoglio. Servire era un gesto di ospitalità e cura, un’espressione di rispetto e attenzione per gli altri. Oggi, invece, questa dimensione si è offuscata, e il servizio viene spesso interpretato nella sua accezione più negativa, come un’azione subordinata piuttosto che una manifestazione di professionalità e accoglienza. Questo cambiamento culturale ha reso il lavoro in sala meno attrattivo e meno riconosciuto.”

Cosa manca oggi a chi intraprende questo lavoro?

“Volontà, sacrificio, impegno e una visione a lungo termine. Sono qualità imprescindibili per chi vuole crescere in questo mestiere, ma oggi sembrano sempre più rare. Per molti, lavorare nella ristorazione è solo un mezzo per arrotondare, un’opzione temporanea piuttosto che un percorso professionale su cui investire con convinzione.”

Perché è così difficile trovare personale qualificato?

“Oggi si dà sempre più valore alla qualità della vita; tuttavia, i “turni spezzati”, gli orari estenuanti, le retribuzioni non adeguate e la stagionalità del settore creano una condizione di continua incertezza. Questo rende difficile costruire un percorso stabile, relegando spesso il lavoro nella ristorazione a una soluzione temporanea, più che a una carriera su cui investire con fiducia.”

Che futuro vedi per la sala e per il mestiere del sommelier?

“Il settore è in evoluzione. Il consumo cambia, le carte dei vini si alleggeriscono, si cercano prodotti più sostenibili: biologici, analcolici, centrifugati. Il ruolo del sommelier si sta adattando, ma serve una formazione più solida, tecnica, riconosciuta. In molti Paesi, il titolo è ufficiale, statale. Da noi, invece, è affidato a poche associazioni private. Mi auguro che anche in Italia venga riconosciuto come un vero percorso di studio. Il futuro? Dipenderà dalla qualità della vita che sapremo offrire a chi lavora in questo mestiere.”

Iolanda Maria Irene Minasola
Grand hotel Angiolieri di Seiano Link

Iolanda Maria Irene Minasola

Ho sempre scritto solo per me stessa; ora vorrei condividere la mia passione con gli altri.
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