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Prendo spunto da una discussione nata qualche giorno fa su Facebook sulla figura dei moderni food influencer. Da lì commenti, considerazioni, suggerimenti interessanti che hanno fatto crescere il bisogno di approfondire l’argomento.

Nel caso in esame, il termine moderno è stato da me impropriamente utilizzato, per indicare i nuovi nati nel vivaio di questa categoria, i cui contorni si fa ancora fatica a delineare.

Proprio loro, non perché i loro predecessori non fornissero altrettanti spunti di riflessione, ma perché sono quelli in cui capita al momento di imbattersi grazie (si fa per dire) a qualche sponsorizzata social che promuove questo o quel locale.

La curiosità nasceva da una serie di fattori che colpivano la mia attenzione man mano che, sempre più attonita, “scrollavo” i vari video.

C’era chi nel descrivere gli ingredienti di ciò che aveva nel piatto, mostrava chiaramente di non sapere ciò di cui parlava e quindi di avere scarsa conoscenza della materia di cui si pone come interlocutore.

Quello, forte dei suoi circa 10.000 (si tranquilli qui non si parla di #pandorogate) followers, trangugiava quantità di cibo sufficienti a sfamare un intero quartiere per una settimana.

Chi addirittura si vantava di essere nel posto “Tal dei tali” per ingurgitare millemila calorie invitando gli spettatori a fare altrettanto.

Chi ancora a suon di urla e sketch alla Totò e Peppino, recensiva “casualmente” locali a destra e a manca dimenticando puntualmente di precisare che si tratta di collaborazioni. Il tutto esercitando un serrato esercizio mandibolare davanti all’obiettivo, riprendendo in primissimo piano il faticoso lavoro del mangiatore seriale.

Ah dimenticavo, ci sarebbe anche la categoria delle food and wine influencer, che oltre a mangiare e bere davanti all’obiettivo, pubblicizzano il cibo/locale/vino di turno puntando tutto sulla “fisicità” ma di questo parleremo poi.

Ci si interrogava dunque sul perché del fenomeno, sul ruolo, sulla figura di determinati personaggi nonché sulla posizione dei tanti ristoratori che accettano questo tipo di pubblicità food.

Dai video non è mai ben chiaro se sono clienti paganti, se offrono i loro servizi in cambio di pasti, se (come in realtà spesso si legge nei loro profili) si propongono per collaborazioni retribuite. Come non è mai chiaro se hanno una minima competenza o appartengono alla schiera degli appassionati.

L’etica professionale, in parecchi di questi casi, viene molto probabilmente bypassata, nonostante in Italia esistano oggi regolamenti in proposito che impongono ai cosiddetti influencer dei precisi obblighi in materia, equiparando la loro figura a quella dei fornitori di servizi audiovisivi e attribuendogli quindi pari responsabilità circa i contenuti condivisi sulle varie piattaforme.

È fatto obbligo all’influencer/blogger di rendere noto il fine commerciale del contenuto che sta diffondendo, nonché l’indicazione di particolari diciture o hashtag che rendano evidente la natura commerciale della comunicazione in oggetto.

Nella maggior parte dei casi invece, che si tratti di piccoli o anche meno piccoli, tutto ciò non si evince in alcun modo lasciando il consumatore, o comunque il fruitore del contenuto, nel dubbio sul trovarsi o meno di fronte a un suggerimento spassionato, una recensione autorevole o una mera “reclame” per dirla alla Clerici.

E se il potenziale cliente resta con il dubbio, spesso il fisco invece, resta con un palmo di naso!

L’altro aspetto, forse ancora più inquietante della faccenda è il messaggio che passa attraverso molti di questi contenuti pseudo pubblicitari.

E cioè che sia bello, lecito, giusto consumare tutto il cibo che loro mostrano fieri, andando contro qualsiasi principio di corretta alimentazione, di cui pur tanto si discetta, anche in base a principi diffusi oggi da autorevoli voci del mondo sanitario, ma a noi già noti grazie agli schemi della dieta mediterranea.

Tavoli stracolmi di fritti e qualsiasi altro ben di Dio, consumati con veloci movimenti di mandibole, incitando gli inconsapevoli spettatori a fare altrettanto.

Senza voler scomodare il caso limite dei mukbang asiatici, video di illimitati pasti consumati in solitudine davanti a un obiettivo che diventa l’unica speranza di un contatto umano, con tutte le problematiche psicologiche e sociali che evidentemente sottendono, è possibile che anche questo più casalingo fenomeno vada a interferire con problematiche sempre più presenti sul nostro territorio come i disturbi alimentari e in particolare l’obesità?

Siamo sicuri che è questo quello che vogliamo per i nostri giovani e per la società in generale? Calorie, colesterolo e Junk Food spesso anche visibilmente di infima qualità?
Ah, quanti danni in nome di quella distorsione del concetto di Food Porn che è stata negli ultimi anni instillata nella percezione dell’ignaro fruitore dei (social) media.

Perché un po’ tutti a volte dimentichiamo il potere enorme che ha oggi la comunicazione social, soprattutto sulle fasce deboli della società, quelle per così dire meno strutturate, vuoi per età, vuoi per mancanza di solide basi che, si spera, possano aiutarci a distinguere il buono e il cattivo.

Quando e quanto, anche in termini economici, pagheremo le conseguenze di questi bombardamenti di fat news neanche troppo subliminali?

In un’epoca in cui, a fare da contraltare a tutto questo, per creare ancora più confusione nelle menti già provate del post Covid, l’altra metà dei social punta tutto sull’apparenza e sulla forma fisica perfetta inneggiando alla guerra contro il carboidrato, all’alimentazione proteica, ai cibi vegani e alla magrezza a tutti i costi.

E ancora, cosa spinge un ristoratore ad affidarsi a codesti personaggi?

Chi li ingaggia, pensa davvero di aumentare il fatturato del proprio locale grazie a dei ragazzi con una manciata di seguaci social?

Se è vero che i social sono spesso specchio di una società ormai sempre più povera di contenuti, c’è ancora, e per fortuna direi, una larga fetta di mercato fatta di persone che davanti a certi fenomeni scappa a gambe levate.

Parliamone un po’ di più, creiamo un’informazione più equilibrata, aiutiamoci a sostenerla.
Spieghiamo che quel tipo di comunicazione è, per certi versi, più vicina a quel mondo #fake che oggi pervade la rete. Ma, molto lontana da quella che dovrebbe essere la realtà quotidiana che, si voglia o no, è fatta (o almeno dovrebbe) di regole, sane abitudini e cibo “normale”.

Che poi, ammettiamolo, a tutti piace ogni tanto infrangere quelle regole.
Basta (far) capire che un limite c’è, deve esserci, a questo come a ogni cosa.

MEatingNews Food Link

 

Anna Orlando

Direttore Responsabile
Calabro-lucana di nascita, campana di adozione. Dopo una laurea in Giurisprudenza e molti anni di professione forense, finalmente realizza un (uno dei tanti) sogno nel cassetto e diventa giornalista pubblicista. La passione per il cibo e le collaborazioni degli ultimi anni fanno il resto.
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