Mi chiamo Khadija e voglio raccontarvi la mia storia, portandovi là dove tutto è iniziato, in Marocco, il paese in cui sono nata e cresciuta. Sono l’unica femmina della famiglia, sia come figlia che come nipote, e sono sempre stata circondata da affetto e avventure. Crescere in una famiglia che viaggiava moltissimo ha alimentato in me grandi sogni. Da bambina desideravo diventare psicologa o intraprendere una carriera militare.

Alla fine, il mio percorso mi ha portato a studiare turismo dopo aver completato il liceo classico.
Ma la vita aveva in serbo per me un’altra strada. Ho continuato la mia formazione in cucina, senza comprendere subito il motivo di questa scelta. Oggi so che era destino: la cucina è sempre stata dentro di me, un amore profondo che, silenziosamente, ha accompagnato ogni passo della mia vita.
E questo ha plasmato una cuoca curiosa, senza specializzarsi in un solo ambito o in un’etichetta etnica precisa, né legarsi a un metodo rigido. Il mio approccio non è disciplinato in senso stretto, ma credo fortemente nella continua formazione e nell’importanza di imparare sempre qualcosa di nuovo, perché la cucina è infinita nella sua varietà, tanto quanto lo è la natura con i suoi infiniti alimenti. E non solo: la cucina varia anche in base ai contesti culturali, geografici, religiosi e politici.
Da piccola, a casa nostra, il cibo era legato al cinema, ai viaggi, alla musica, all’arte, alla salute, allo sport e alla religione.
Mi è stato presentato come qualcosa che racconta storie e permette di vivere ogni esperienza con passione e creatività. Il cibo non era solo nutrimento, ma una forma d’arte, un incontro di culture e un modo di condividere momenti speciali con gli altri.
Per esempio, ricordo l’astuzia di mia madre nel farci mangiare le carote, guardando le avventure di Bugs Bunny, il nostro amato coniglio. E i fagioli, che ci sembravano così noiosi, diventavano irresistibili grazie a un vecchio film western, Lo chiamavano Trinità, con la cena di fagioli che mangiavamo non solo con gusto, ma facendo la scarpetta nel tegame, proprio come fa il protagonista nel film.
Mi ricordo anche come mia madre ci insegnava a ringraziare il cibo a tavola, grazie alla famosa scena di Charlie Chaplin con la zuppa di scarpa, che ci faceva riflettere sull’importanza di apprezzare anche i piccoli gesti quotidiani, come il mangiare.
E mi ricordo anche che mio padre, durante le cene, citava una poesia che ci faceva venire l’acquolina in bocca. Era del poeta Mesfiwi e cantata da Mohammed Brak, una poesia che parlava di come ospitare e cosa cucinare. Un giorno ve la farò sentire.
Non vorrei dimenticare nemmeno la mia nonna materna, con tutti i suoi mini tegami di terracotta, una tradizione che ci teneva uniti in casa e che ci veniva tramandata di generazione in generazione. Ma la mia nonna era anche una vera “ambasciatrice” in questo campo, sempre pronta a insegnarci i segreti della cucina.
E poi c’era la nonna paterna, con la sua dispensa segreta, conosciuta da tutti, ma con la chiave ben custodita. Ogni tanto, però, i bambini di casa, in complicità con i grandi, la rubavano in segreto per assaporare i suoi prelibati piatti.
C’è molto da dire e mi sento come un vulcano che vuole dare tutto ciò che ha dentro, ma non è possibile tutto in una volta.
Però, vorrei dire un’ultima cosa: nella mia esperienza personale, ho capito che non esiste la cucina migliore del mondo. Non esiste un piatto più nutriente o che faccia bene o male in assoluto. Tutto dipende da noi, perché ciascuno di noi è importante, come è importante conoscere se stessi per capire cosa mettere, o cosa no, sulla nostra tavola.

Vi porto indietro nel 1994, nel periodo dello streetwear e del pop/teen pop. Vi presento Miramar, il piatto con cui ho vinto due premi.